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Il Giardino della Paura - Capitolo 2

Capitolo 2

Le chiamate ai Vigili del Fuoco sono più frequenti di quanto si pensi, è un lavoro duro a seconda dei casi che si affrontano. È comune vedere la figura del pompiere durante atti molto impegnativi come lo spegnere incendi; tanto quanto si tratta di liberar qualcuno da un ascensore bloccato. Questi uomini sono addestrati ad affrontare diversi tipi di situazioni, ma ovviamente ogni vigile spera sempre che la prossima chiamata riguardi un intervento di facile soluzione.

Nel dipartimento di Firenze ovest, la vecchia e stonata sirena dell’allarme iniziò a cantare.

Senza bisogno di un ordine vocale si assemblò subito una squadra che, in meno di un minuto, era pronta e già a bordo di uno dei classici camion rossi.

Stavolta dovevano evacuare una casa di riposo dopo la segnalazione di una fuga di gas nell’edificio stesso.

La struttura era una piccola villetta arancione nei sobborghi di Sesto Fiorentino, vigili e infermieri (ovviamente non potevano mancare le ambulanze) collaborarono insieme per mettere al sicuro gli anziani ospiti prima di andare alla ricerca della sorgente del gas.

Non tutti furono collaborativi: alcuni non avevano intenzione di lasciare le proprie camere e vedevano negli operativi dei rompiscatole, altri invece erano ben contenti di avere tanta gente intorno con cui parlare e raccontare di sé stessi. Le più contente furono le signore, affascinante da tutti quei signori in divisa.

Riccardo ovviamente fu tra quelli favoriti.

I colleghi se la ridevano mentre le anziane ospiti facevano a gara per farsi accompagnare fuori proprio da lui, un paio di loro finsero di non farcela a camminare con la scusa di farsi portare in braccio mentre la più furba del gruppo riuscì a tenerselo stretto dopo aver detto di aver bisogno di un abbraccio per tranquillizzarsi.

Alla fine non ci fu nessuna emergenza, era stato un falso allarme.

Perciò diedero il via libera e rassicurarono tutti quanti gli occupanti della casa di riposo.

Poi via, di ritorno alla caserma in attesa del prossimo intervento.

Una volta avevano chiesto a Riccardo se avesse mai avuto dei ripensamenti sulla sua scelta lavorativa: assolutamente no, aveva risposto.

Da bambino era rimasto folgorato dall’impegno di queste persone e non aveva mai dubitato che sarebbe voluto essere uno di loro, un giorno. Avrebbe potuto fare il medico, o il carabiniere come suo papà… e invece no! O il vigile del fuoco, o niente! Così, una volta grande, si era impegnato per realizzare il suo sogno.

Quando non doveva cimentarsi con fuochi  fuori controllo e gatti sugli alberi, si impegnava anche nel volontariato dove dava sempre una mano, frequentava un corso di addestratore cinofilo e da poco aveva cominciato a studiare per diventare capitano. Erano tante cose belle da fare, di cosa doveva pentirsi?

 

Riccardo si svegliò di soprassalto, disturbato dal trillo del citofono che pareva (secondo lui) un tacchino sgozzato.

Non aveva alcuna voglia di alzarsi per vedere chi lo stesse disturbando alle 7 del mattino, era il suo giorno libero e aveva intenzione di passarlo arrotolato intorno alle lenzuola, nascondendo la testa sotto il cuscino nel tentativo di ignorare quella scocciatura “starnazzante”.

Dopo un continuo concerto il campanello ebbe la meglio.

Un giovane dipendente delle Poste Italiane, con un largo sorriso, gli porse la posta in busta ed con un grosso pacco su cui era stampata a caratteri neri la parola “fragile”.

Forzando un gentile grazie, salutò il postino che scattò via come un soldatino.

Gettò sul tavolino del salone le buste e contemplò il pacco.

Seduto sul divano, in bilico tra l’essere sveglio e nel ricadere nel mondo dei sogni, rimase a fissarlo intontito per 20 minuti prima di scuotersi, cominciando con un caffè bollente.

Solo dopo aver svuotato la macchina del caffè lesse tutto: il destinatario era sua madre. La signora era una nostalgica, probabilmente era l’unica persona sulla terra che continuava a scrivere lettere come ai vecchi tempi, trovandolo più appagante dello battere i duri tasti di un computer o di un telefono.

 

               Caro Riccardo.

Tanti auguri!

So che questa lettera giungerà in anticipo, ma voglio egualmente inviarti i miei più felici auguri. Quasi non riesco a credere che siano passati 35 anni dalla tua nascita… il tempo passa così in fretta. Mentre ti scrivo guardo le foto di quando eri piccolo. Così paffutello e tenero come un bambolotto, tutte le signore dell’ospedale m’invidiavano per quanto fossi bello! Piuttosto, quand’è che utilizzerai il fascino da me ereditato per fidanzarti?

Vorrei tanto rivederti con una signorina accanto, perché non mi dai questa gioia? Guarda che ci tengo molto! Tuo padre invece dice di goderti la libertà finché puoi… il solito spiritoso.

Termino questa lettera mandandoti tanti baci affettuosi.

A presto per la tua festa. Mamma e papà.

P.S.: Spero che il regalo che ti ho spedito ti piaccia.

 

Sorrise, la mamma era sempre la mamma.

Rimossa la carta d’imballaggio, rimase basito alla vista dello specchio dalla cornice d’avorio.

Non si intendeva di antichità ma era proprio bello; i segni scavati con precisione sulla cornice ricordavano dei tatuaggi tribali e il bianco colore lucido come il vetro.

Dovette ammettere che un’oggetto simile, il cui utilizzo era quello di rispecchiare la vanità degli esseri umani, era adatto a lui che stava attento all’aspetto fisico. Non lo avrebbe mai ammesso davanti ad altri, ma ci teneva alla propria immagine. Stavolta sua madre ci aveva azzeccato.

Vi si specchiò, il suo riflesso venne catturato dal vetro, incorniciando ogni gesto e smorfia.

Si ripromise che il prima possibile avrebbe chiamato la madre per ringraziarla… se fosse prima sopravvissuto a quel pomeriggio.    

 

A proposito di donne, quei disgraziati dei suoi colleghi erano riusciti a combinargli a sua insaputa un appuntamento al buio.

 

Era andato su tutte le furie quando gli avevano fatto vedere la foto di una moretta del Sud, dicendogli che avrebbero passato insieme un “romantico” pomeriggio tra le gallerie degli Uffizi di Firenze. Dire che era furioso non bastava a descrivere il suo stato d’animo, era diventato così rosso in viso da far concorrenza ad un peperoncino e quando i vicini di casa lo sentirono gridare ne rimasero impressionati, lui che non alzava la voce nemmeno con il vicino del terzo piano che aveva sempre la brutta abitudine di suonare il clacson ripetutamente per farsi liberare il passaggio per il garage (tutto il contrario della vicina del primo, dal carattere molto più pepato). Alla fine, aveva ben ragione di essere arrabbiato; non gli piaceva che gli facessero certe cose alle sue spalle.

Per sua sfortuna non era riuscito ad annullare l’incontro, i bastardi si erano ben guardati da lasciargli un contatto per spiegare il malinteso.

È così eccolo là, costretto a fingere di essere interessato ad una donna che manco conosceva.

Per carità! A lui le donne piacevano, e anche tanto!

Ma che gusto c’era ad incontrane una su “prenotazione”?

Non era nè un romantico come sua madre o un dongiovanni in cerca di avventure di una notte; semplicemente, non era ancora scoccato l’interesse. Tutto qui.

Cosa che si ripetè anche con la sua “partner”.

Avrebbe dovuto confessare i retroscena e chiederle scusa per la stupida goliardia di “ex-amici” che pensavano di essere intelligenti, ma non se la sentì di fare lo stronzo: lei si presentò carina, gentile e con troppa speranza di ricavare qualcosa di buono da quella giornata.

Perciò tacque e sopportò in silenzio, sperando di trovare un’idea su come uscir fuori da quella imbarazzante situazione.

 

Riccardo era già stato un paio di volte agli Uffizi, da bravo fiorentino aveva studiato e ammirato quasi tutti i tesori artistici che la sua Firenze sfoggiava.

Ma quel giorno l’atmosfera nell’edificio era inquietante, una questione di suggestione la sua causata dal tema della mostra attualmente allestita: il titolo annunciava con caratteri in stile gotico “10 Secoli D’Inferno – Le età oscure della del mondo e della vita”.

Decisamente non fu una mostra allegra, erano esposte le opere più inquietanti e grottesche che la storia dell’arte avesse mai visto. I soggetti trattavano la morte, la malattia, l’inferno con le sue punizioni carnali e così via dicendo; roba che nemmeno Stephen King era riuscito a rappresentare nei suoi romanzi. Guardò un disturbante dipinto di satana, gli tornò in mente di una compagna di liceo che aveva il terrore del diavolo e di cui non ne poteva sopportare nemmeno il singolo accenno.

Aleggiava una calma oscura, i visitatori parevano aver persino paura di parlare, quasi fossero finito davvero in quell’oscuro mondo di follia e peccato. Riccardo rimpianse i noiosi pomeriggi con sua madre in Via Roma, costretto a curiosare con lei tra le sfarzose vetrine di abbigliamento che ora esponevano modelli di Michael Kors e Zara, costosi quanto un diamante Swarosky.

<< È molto interessante. Pensare che la maggior parte di queste opere erano destinate solo a spaventare i credenti. >>

<< Bè, una volta erano tutti timorati di Dio. >>

<< Si, ma c’è molto di più dietro. Non è solo una questione di intimidire i fedeli cristiani, si vede che ogni artista ha voluto mettere una propria visione dell’oscurità del mondo. >>

La ragazza era una patita di storia dell’arte, ne sapeva più lei di un professore di scuola.

Nonostante la buona volontà però, lui non riusciva proprio ad interessarsi all’argomento.

Quanti sbadigli dovette nascondere per non offenderla.

Notò che certe aree erano più affollate di altre, dovute al fatto che in alcune erano esposti quadri assai famosi, o così esageratamente folli da incuriosire la massa che non faceva sconti di fotografie.

 

La marea umana lo trascinò davanti a quella che, secondo lui, era l’opera che meglio coronava l’assurdo tema: la targa lo indicava come “Il Giardino delle Delizie”, di Hieronymus Bosch.

 

Il trittico era così grande e pieno di dettagli che non aveva idea da dove cominciare a guardare.

Da ignorante osservatore, vedeva solo della gente riunita in orge con animali prima in un allegro paesaggio naturale e poi in cupo mondo di fiamme e demoni, con in mezzo strani esseri, castelli dall’architettura indescrivibile e quanto altro ci fosse di più pazzo.

La sua accompagnatrice era già partita in quarta con la solita lezione artistica ma lui si era perso dopo le prime parole; capì solo che era una rappresentazione biblica di qualche sorta. Altri, appassionati come lei o semplici guide turistiche, ne parlavano con enfasi esagerata da turisti e studenti che probabilmente erano disorientati quanto lui.

Non c’era niente di delizioso in quei disegni!

L’artista doveva essersi fatto di qualche sostanza allucinogena per poter pensare che il Paradiso (o qualunque posto fosse) potesse avere quell’aspetto, o che potessero succedere cose senza senso; delle tre parti forse solo la terza, quella della distruzione del mondo; aveva davvero senso.

Poteva essere esagerato, ma guardandolo gli dava davvero la nausea.

 

Improvvisamente le luci si spensero, nel museo calò l’oscurità.

Tra i visitatori ci furono reazioni miste tra spavento ed impassibilità, i custodi sparsi nelle sale si diedero subito da fare per rassicurare tutti, solo i bambini si lasciarono andare a pianti isterici di paura.

La brunetta si era aggrappata saldamente al suo braccio, leggermente divertita dall’inaspettato incidente; Riccardo d’altra parte aveva dimenticato la sua esistenza, la sua mente lavorava a pieno ritmo solo per tenerlo aggrappato a quella briciola di sanità mentale che stava pian piano sbriciolandosi.

Luce.

Aveva assoluto bisogno di luce.

Si trovavano in una piccola stanza con una sola uscita, se almeno fossero stati nel corridoio si sarebbe sentito più al sicuro, lì la luce abbondava grazie ai grandi finestroni. Aveva provato ad andare fuori ma i custodi gli avevano detto di star fermi e aspettare che risolvessero il problema: era un’idea stupida! Erano almeno in 40 in quella stanza! L’aria era impregnata di sudore, continuavano a spingerlo e di sottofondo l’accompagnamento musicale da chiesa, scelto apposto per la mostra; lo irritava ogni secondo che passava. Non fu solo la musica a dar noia; tutti quegli elementi facevano da colonna sonora alla sua paura.

E nel buio le altre persone lo sentivano, se ne lamentavano… lo rimproveravano di stare calmo.

Ma quale calma! Che la piantassero! Era lui che aveva più bisogno di aiuto!

Lui doveva uscire dalle grinfie delle tenebre sempre più vicine al suo collo!

Lo sentiva! Lo sentiva! Il pericolo era imminente! 

Luce! Fuggire! Morte!

La torcia di un custode interruppe il delirante tumulto di pensieri sconfortanti, lui e tanti altri si avvicinarono al raggio luminoso come falene. L’uomo in uniforme li guidò fuori da lì, scusandosi a nome del museo per l’inconveniente e pregando tutti di poter tornare a godere della magnificenza degli Uffizi.

A Riccardo andava bene, scusava tutti, anche i parenti di questi; ma che lo facessero uscire.

<< Riccardo, va tutto bene? >> chiese la sua accompagnatrice.

Barcollava lui, aveva sudato così tanto da lasciare grandi aloni sotto le ascelle.

<< Si… è tutto ok. >>

 

Ma niente sarebbe stato “ok” da quel giorno in poi.

 

Il pomeriggio del suo compleanno, tre giorni dopo, Riccardo non stava bene.

In quel breve arco di tempo aveva sentito che la sua salute si stava lentamente inasprendo, ma niente di così serio da impedirgli di svolgere la sua solita routine quotidiana. La situazione prima di quel giorno non era apparsa seria, attribuendola ad una semplice influenza passeggera di cui soffriva di tanto in tanto era corso ai ripari con aspirine, cibo più leggero e lunghi pisolini. Adesso, tutto d’un colpo, si sentiva uno straccio.

Tutto parve venire a galla dopo un paio di colpi di tosse, come se il male avesse risalito da dentro il suo corpo. Fu un’enorme dispiacere vedere i suoi parenti e i suoi amici, tanto cari da organizzare una festa a sorpresa in casa sua; preoccuparsi mentre lo vedevano sbiancare come un cencio sotto i loro occhi. Lui era l’unica cosa guasta nel suo bel salotto addobbato con festoni e palloncini colorati, avevano anche preparato la tavola con tutti i suoi dolci preferiti e la torta al cioccolato regnava al centro come regina di tutto, e sul divano qualcuno aveva adagiato un cartellone con disegnata una sua caricatura.

Sorrise e minimizzò, quel giorno doveva portare allegria e non apprensione, si sforzò di nascondere senza successo i tremori causati dai brividi di freddo.

<< Non posso vederti così, adesso chiamo un’ambulanza. >>

<< Mamma, ti prego, calmati: è solo un’influenza. >>

<< No Riccardo, non sei mai stato malato così prima d’ora, nemmeno con gli orecchioni o con il morbillo. >>

Riccardo voleva calmare la mamma, ma se parlava troppo nuovi violenti colpi di tosse lo lasciavano senza fiato e la gola bruciava come se gliela avessero graffiata.

Tutt’intorno i suoi cari erano sempre più in apprensione, solo suo padre teneva i nervi saldi impartendo ordini a destra e a mando ed urlando alla moglie di non farsi prendere dal panico, però dietro la sua militaresca autorevolezza aveva anch’egli apprensione, lo sentiva da come gli stringeva la spalla.

D’improvviso non riuscì più a distinguere le voci, udendole distorte come per effetto di un filtro di rallentamento. Fece giusto in tempo a dirlo a suo padre, poi crollò ai suoi piedi in preda alle convulsioni.

Nel condominio tutti sentirono urlare la signora Vanessa.

 

L’ambulanza aveva bruciato strada e semafori per portarlo in ospedale a Careggi, all’entrata del Pronto Soccorso si erano già preparati infermieri e dottori.

C’era stata una corsa sfrenata tra i corridoi, poi si erano chiusi dentro una sala e avevano iniziato a somministrargli sostanze per far rifunzionare i polmoni e ristabilire i normali parametri vitali. Quando il cuore smise di battere il defibrillatore era già fortunatamente accesso.

Solo dopo quattro tentativi si riattivò, una pulsazione ancora molto debole dal punto di vista medico, ma per il team medico sentirlo battere continuamente fu comunque una bella vittoria.

Molte ore più tardi, quando la famiglia potè finalmente vederlo, lo trovarono che giaceva a letto in stato di semi coscienza; sul petto aveva attaccati dei sensori che registravano il battito cardiaco rallentato, al polso una flebo gli iniettava endovena soluzioni colloidi e sul viso teneva una mascherina per l’ossigeno. Il dottore che lo aveva preso in cura stava visitandolo di nuovo; ogni ora verificava eventuali cambiamenti nei suoi parametri vitali e ogni volta i risultati erano pressoché scoraggianti.

<< Signori Angeli, tutto ciò che posso fare al momento è trattenere vostro figlio in ospedale. >> disse finalmente il medico ai due ansiosi genitori.

<< Che cos’ha nostro figlio? >> chiese Vanessa con voce rauca.

<< È questo il suo problema signora: non riusciamo a capirlo. I suoi sintomi non ci spiegano cosa gli stia succedendo, e senza comprendere la causa, non possiamo agire. >>

Non era quello che volevano sentire, tantomeno Riccardo.

Si spaventarono a morte, il medico provò a calmarli ma il danno era fatto.

<< Stiamo facendo quanti più esami possibili, il nostro ospedale è ottimamente attrezzato. Le prometto che presto troveremo una risposta. >>

Riccardo aveva molti dubbi: c’era davvero una spiegazione a quel che stava accadendogli?

Non riusciva a concepirlo come reale, cioè… era troppo, troppo brutto per esserlo; davvero la realtà poteva essere così crudele?

Dalla piccola finestra vide il pacato arancione del sole calante, lo immaginò pian piano sparire oltre i palazzi di Firenze, segnalando a botteghe e bancarelle di chiudere per andare a riposo; e non prima di aver tinto di quella romantica luce magica i marmi delle cattedrali come quelli di Santa Maria del Fiore. Lo fece per non pensare alla sofferenza e al drammatico epilogo a cui andava incontro, quei programmi sulle “malattie misteriose” che spesso aveva guardato per noia adesso gli parevano ammonimenti.

Udì suonare le campane di una chiesa, per ogni rintocco espresse a voce bassa una preghiera.

Non per essere salvato, ma più per chiedere perdono per qualsiasi peccato egli avesse commesso inconsciamente, sperando che Dio l’aiutasse..

 

Scese la notte, nell’ospedale regnava il silenzio.

Da solo nella sua camera, sdraiato su un materasso alquanto scomodo, Riccardo non era in grado di dormire, ma per paura, non per insonnia.

La stanchezza aveva appena cominciato a vincerlo quando udì una risata.

Perse quella minima traccia di sonno, gli si erano rizzati i peli delle braccia. Fissò ad occhi sgranati la camera vuota poveramente arredata con solo un tavolo di acciaio ed un televisore posto in alto sulla parete, l’armadietto con i suoi vestiti era socchiuso.

La risata l’aveva sentita sul serio, ed era stata inquietante.

L’udì di nuovo, molto più vicina di prima.

<< Chi c’è? >> osò chiedere.

<< Hai voglia di ridere un po’ con me Riccardo? >>

Trasalì.

Una voce senza corpo gli aveva risposto.

<< Tranquillo amico mio, sono venuto per aiutarti. Quando ho isto che stavi così male, sono accorso subito al tuo capezzale. >>

<< Chi è che parla?è uno scherzo per caso? >>

<< Ma no. Non devi avere… paura.  >>

Scoppiò a ridere “l’entità”, come se quelle parole fossero state la cosa più ridicola che avesse mai detto.

Si trattene a fatica, aveva continui attacchi di risata, solo per quello l’uomo pensò che fosse uno stupido spregevole scherzo. Ma se così non fosse… allora che arrivasse con tutti gli onori la signora Morte. Meglio crepare subito, piuttosto che essere torturato dalle allucinazione.

<< Fatti vedere, sono stufo di questa pagliacciata. >>

<< Aspettavo che tu me lo chiedessi! >>

D’un tratto, all’angolo della stanza dove la luce pacata dei lampioni in strada non arrivava e lasciava ombra, qualcosa si mosse e prese forma: un uomo dai capelli lunghi, la pelle nera come pece e piccoli occhi argentati. Si avvicinò con passo fiero, sfoggiando un largo sorriso che faceva concorrenza a quello dello Stregatto di Alice.

 

Riccardo teneva la bocca aperta senza urlare, le mani tremavano mentre stringeva con forza le lenzuola e vi si nascose sotto come un bambino terrorizzato dalla minaccia imminente “dell’Uomo Nero”, l’elettrocardiogramma pareva ammattito mentre registrava il battito accelerato del suo cuore.

 

Non aveva senso: quell’individuo comparso dal nulla era identico a lui.

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